Parole dell'artista…

Il mio lavoro è l'approdo di un viaggio dal percorso in parte progettato e in parte ignoto, un viaggio sempre alla ricerca di parole per raccontare il mio universo, la mia mitologia personale. Viviamo in una realtà conosciuta e insieme inesplorata, che si può scoprire soltanto percorrendo la propria strada individuale. Il grande viaggio attraversa le profondità dell'anima, affronta un lavoro lento e faticoso, non privo di ostacoli. È così che mi libero da strati, sedimenti e sovrastrutture culturali fino a far emergere l'essenza dei pensieri, delle sensazioni. Con la pittura catturo frammenti del mio paesaggio interiore: come immagini che vedo scorrere da un treno in corsa li fermo e provo a cucirli insieme, a dar loro una forma per farli entrare nella dimensione del visibile. Per afferrare un istante di verità.

 

Stati interiori dell'individuo contemporaneo

Interpretare è sempre un’opera parziale, unilaterale, provvisoria...
Eppure le interpretazioni sono inevitabili e preziose perché introducono un ordine concettuale, una sistematizzazione seppur solo da un determinato punto di vista.
Il lavoro di “operaio celeste” è originale e unico, le sue opere sono sconvolgenti, chiunque le osservi non può restarvi indifferente. Che siano i colori, le particolari forme umane a colpire, o le inusuali tecniche utilizzate, se non i più impensabili usi e accostamenti di materiali è difficile da dire, ogni individuo posto davanti alle sue opere rimane profondamente colpito. Qualcosa scava alla radice della nostra umanità quando ci fermiamo ad osservare il lavoro dell’artista.
Appartenenza e spaesamento sono le contraddittorie sensazioni che provoca, del resto, ciò caratterizza anche la sua condizione di trapiantato in Italia dal suo paese di origine, la Polonia.
Proprio questa situazione, il vivere a cavallo tra due mondi, in due distinte dimensioni, tra due paesi così differenti gli consente di avere un occhio privilegiato, una condizione di visione dall’esterno. Integrazione e non integrazione in un contesto culturale donano una straordinaria capacità di analisi, che traspare chiaramente nelle sue opere e che appare sempre più evidente se si considerano i suoi lavori pittorici nella loro globalità.
Le opere di “operaio celeste” sono lo specchio degli stati interiori dell’individuo contemporaneo.
La sua più grande abilità risiede nel dare una vivida rappresentazione visiva degli stati emotivi contemporanei più diffusi, quelli legati all’incertezza e all’indeterminazione di quest’epoca di continui cambiamenti.
Ogni forma di angoscia, paura, incertezza, contraddizione che sperimenta l’individuo nella vita quotidiana contemporanea sembra prendere forma attraverso le sue realizzazioni. Come alcuni dei più grandi sociologi contemporanei* hanno rilevato, attualmente tutto si riduce all’individuo. Non c’è più nessuno né qualcosa a cui si possano addossare le colpe dei propri fallimenti, viviamo nella Società del Rischio (U. Beck), ognuno è costretto a costruire il proprio progetto di vita, nessun ruolo sociale, nessuna vita risultano determinati.
Isolamento, solitudini, ansie, continua autoanalisi e autocritica, intangibilità, contraddizioni stringono l’individuo contemporaneo in una morsa. Il lavoro dell’artista è concettuale, cerca di portare alla luce sensazioni che si vivono quotidianamente. Da qui tutti quegli elementi come vortici, gabbie, reti, contorcimenti che attraversano i suoi quadri. E ancora, fili, tele e pezzi cuciti tra loro come a indicare la necessità di collegare le disparate, eterogenee e contraddittorie parti della vita contemporanea. Sovrapposizioni imprevedibili, esplosioni di splendidi colori, strani simbolismi, superficialità, banalità, forze istintuali, misticismo sembrano rappresentare l’altro lato della medaglia ossia la illimitata libertà di cui le persone attualmente dispongono e la possibilità di estendere sempre di più il campo d’esperienza.
Nel suo vagare negli interstizi dell’anima e dell’individualità della società contemporanea “operaio celeste” continuerà a darci tracce, rappresentazioni estremamente toccanti, quasi delle istantanee, delle sensazioni provate dall’uomo contemporaneo.

      *Note: Z. Bauman,”Modernità liquida”, 2002; U. Beck, “I rischi della libertà.L’individuo nell’epoca della globalizzazione”, 2000; A. Giddens, “Le conseguenze della modernità”, 1994.

Adriano Tarasco

 

Recensione di Ida Bartuli

Il percorso artistico di Wilczek ha inizio con la pittura, attraverso la quale esprime il proprio mondo interiore tramite un linguaggio in continua evoluzione. Emergono con il tempo quegli elementi simbolici che, interiorizzati e assimilati lo porterannoa realizzare creazioni sempre più complesse. Nella sua opera, la forza espressiva delle forme sostenuta da una gamma di colori accesi si alterna a suggestive immagini poetiche, microcosmi di grande delicatezza. Il suo è un viaggio solitario verso l'eternità. E' sempre presente una tensione verso l'incommensurabile, verso un mondo puro, incorruttibile e sconfinato. C'è una dolorosa consapevolezza della condizione umana, temperata da una dolcezza estrema, che non trova consolazione né nella ricorrente figura simbolica della donna - madre, né nella religiosità della natura, sebbene in alcune opere le tensioni sembrano allentarsi nella creazione di un mondo sospeso, fiabesco, ancora aperto alle illusioni. Iniziando il lavoro di restauratore, scopre nel legno una materia primigenia ed arcaica dalle grandi potenzialità espressive. L'uso del legno e di altre materie naturali permette all'artista di essere partecipe dell' energia operante nell' universo e di inserirsi nel ciclo di rinnovamento continuo della materia. Niente viene perduto: foglie, sassi, legni restituiti dal mare acquistano nuova vita e nuove funzioni in una metamorfosi continua. L'energia e la vitalità con cui Wilczek lavora si infondono nei materiali usati plasmandoli e facendo nascere opere uniche in cui le qualità artistiche e decorative si coniugano in perfetto equilibrio con quelle funzionali. I suoi lavori suscitano emozioni e stimoli trasformando i desideri in oggetti di arredo senza tempo che abitano con naturalezza contesti antichi o contemporanei. I suoi mobili, le sue cornici hanno la parvenza di forme naturali cresciute dalla terra, elementi organici al pari di un albero o di una pianta, cui però la raffinata cromia sapientemente dosata aggiunge alle forme vegetali brandelli di sogno e di memoria che si sovrappongono alle forme naturali quasi unica traccia dell' intervento dell' uomo. Una natura "sognata" prende forma tra le sue mani e oggetti tangibili e sempre nuovi d'uso quotidiano traducono in realtà il misterioso legame uomo - natura, filo conduttore di tutta la sua produzione artistica.

 

Operaio Celeste

L'operaio celeste usa le mani con lo sguardo rivolto al cielo. Amare la dura materia ed accarezzare l'impalpabilità delle nuvole è nel quotidiano di chi, senza mai aver fatto questa scelta, si pone tra la rappresentazione terrena e l'idea astrale. Strumento nelle mani dell'universo vive le vicissitudini del quotidiano e dal quotidiano parte per tornare a rappresentare il cielo. Una vita vissuta con i piedi nel pantano e gli occhi che fissano l'orizzonte. Un vissuto che entra prepotentemente in ogni sua composizione attraverso le materie utilizzate. Tutte hanno una storia che precede l'opera stessa. Materie che il vento ha consumato, il mare ha levigato, il corpo ha impregnato di sudore. Non c'è lavoro che parta dal nulla, da una tela bianca, da una cornice vuota. Non si parte mai da zero e la vita è già prima di ogni rappresentazione. Non si dichiara artista e non usa i materiali dell'arte. La natura con i suoi scarti è la sua fonte, la vita è il suo palcoscenico. Sottopone le materie a mille trattamenti ricercandone i punti di forza ed i punti deboli. Lega insieme con lo spago, con il fil di ferro, con la mente, i pezzi come un puzzle, il puzzle della vita. Costruisce la sua esistenza proiettandosela intorno. Circondato da oggetti, opere d'uso e di pensiero, assemblaggi di scarti tornati a trasmettere energie forti, Riccardo Wilczek, “operaio celeste”, continua a guardare in alto.

Giuseppe Salerno

 

Raramente un riccio muore di vecchiaia

Raramente un riccio muore di vecchiaia. Si difende, chiudendosi proverbialmente a riccio, conformandosi in tal modo alla perfezione divina della forma sferica. Ma raramente un riccio muore di vecchiaia.
Ora, lasciamo pure il riccio a margine della successiva trattazione, e teniamo fermo il concetto di sfera, di sfericità. Un concetto che nel susseguirsi dei millenni ha appassionato filosofi prima ancora che teologi e, in tempi più recenti, lungimiranti editori di magazine.
La forma sferica, ho sentito dire,  è la più rassicurante, perché non ha spigoli, non ha orientamento nello spazio perché è essa stessa spazio. Tutto il creato ambisce alla forma della sfera: nel macrocosmo dei pianeti come nel microcosmo delle particelle subatomiche. Nel mezzo dei due estremi, l'essere umano concettualizza la sfera e si sente rassicurato, si circonda di sfere: la sfera affettiva, quella mistica, la sfera lavorativa e mille altre ancora. La sfera, ha detto qualcuno, appartiene alla scala cromatica del blu; meglio ancora: è celeste. E celeste deriva da cielo e rimanda a celestiale, ovvero partendo dalla contemplazione della natura arriva al trascendente. Dalla natura al mondo delle idee.
Ma in che modo un operaio può dirsi celeste?
“R.W. operaio celeste”:  mi ha comunicato sin da subito un rasserenante senso di laboriosità e di partecipazione alle eterne dinamiche del cosmo. Impressa a fuoco su legno, vedevo per la prima volta  la firma che correda le opere di Riczard Wilczek, l'acronimo seguito dai due vocaboli operaio e celeste tanto immediati di per sé quanto criptici nella loro interpolazione.
Operaio è, per definizione, chi svolge un'attività lavorativa manuale, celeste è ciò che è del cielo, ovvero divino, che proviene dal cielo in quanto sede di Dio. Per un attimo il pensiero indugia su La classe operaia va in Paradiso, torna per questo tramite carico di ulteriore significato, di un senso di sforzo non solo pagato ma anche appagato, perché in armonia con la creazione. Sta tutto qui il senso di questa sinestesia. Riccardo, come  lo chiamiamo da quando risiede in Italia, non è soltanto un artista, è un operaio, uno che l'arte, ovvero il mestiere dell'arte, la unisce a ogni aspetto della vita, per fini concreti e non solo decorativi.
Dispiegando un senso pratico inapplicabile per sua stessa definizione a venerande schiere di artisti contemporanei, Riccardo è un esempio personificato di quell'arte applicata (ovvero funzionale) di estrazione operaia formatasi negli opifici e nei laboratori della Polonia degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. “Lode al braccio che piega l'acciaio, lode alla mano che muove il telaio”: che tu ci creda o meno, o sei parte dell'ingranaggio o sei inghiottito dall'ingranaggio. E il giovane Wilczek ha fatto propria questa lezione della Storia con in pugno gli strumenti del pittore e quelli del fabbro, dello scultore e del sarto.
Bottoni, pipe, capi di abbigliamento, arredi, sedie, tavoli, cornici: eclettismo della creazione, ricollocamento degli oggetti finiti, riqualificazione dei materiali di recupero, ogni sostanza nelle mani di Riccardo risorge a nuova vita conservando la traccia di ciò che è stato.
Avvicinandoci a una delle sue tele scopriamo  (proviamo a scoprire) un vissuto a volte domestico, intimo, a volte altrui, casuale. Il sarto unisce i pannelli di tela che il corniciaio fissa al telaio fino a che l'artista lascia il suo segno creativo, e sono molteplici i passaggi di mano, della stessa mano. In tal modo, le tele di Wilczek vanno lette con duplice sguardo, nella parte dipinta come in quella che resta celata alla vista, a rimandare a un gesto preliminare alla creazione che qui è già di per sé creazione o, meglio, rigenerazione.
In Riccardo conta l'antefatto ancor prima del fatto compiuto, la preparazione prima dell'esecuzione. L'arte qui si fa autarchica e avulsa da presupposti e dinamiche economiche e commerciali in virtù del ciclo di trasformazione dalla materia bruta al materiale artistico. Ed è un viaggio affascinante da compiere, finanche rassicurante, quello intorno alla materia da lui stesso plasmata in forma bi- o tri-dimensionale perché non ci sono lupi cattivi, né rapinosi orchi o  streghe arcigne, perché ci si ritrova sotto forma di reperto industriale tutto quello che altri esseri umani hanno lasciato, che parla di noi come consumatori e ci è familiare, seppure carico di una nuova livrea segnica.
In una nostra recente conversazione sulla genesi dell'opera d'arte, Riccardo mi ha parlato del come l'impulso creativo passi attraverso tre fasi successive e disgiunte che sintetizzano altrettanti passaggi nella maturazione dell'artista.
La prima fase è quella cerebrale, ovvero la fase dell'intellettualizzazione degli impulsi esterni, laddove il percorso formativo dell'artista è ancora acerbo, non autonomo dai dettami accademici. La seconda è la fase emotiva in cui, affrancatosi dai rigidi schemi, l'artista mira a far emergere dal tessuto pittorico o plastico il sentimento, il cuore, a comunicare all'osservatore i frammenti di un codice che può essere rivelato solo in parte. La terza fase, quella della piena maturità creativa, è la viscerale, ovvero che ha sede nei visceri, dove l'addome diventa paradigma generativo di ciò che è istintivo, libero da vincoli convenzionali. È una forza centripeta, dunque, quella che sostiene la progressione e costante maturazione dell'artista con una traiettoria che passa dalla testa all'addome per il tramite del cuore,  e nell'addome, sede generativa per eccellenza, trova la sua definitiva collocazione.
Istintivo. Di fronte alle sue opere, che Riccardo non correda volutamente di un titolo, ti dice questo “funziona”. Di altre ancora in fase di elaborazione ti dice “qui potrebbe funzionare, ma ancora non funziona”. Funziona/non funziona, il resto viene lasciato alla capacità di giudizio dell'osservatore: finalmente un artista che fa il suo mestiere e lascia le pastoie della critica agli accademici e agli eruditi.
Dice “funziona” e gli viene istintivo, è l'omologo verbale del segno grafico tracciato sul supporto per non essere più emendato. È una sorta di poetica questa del “funziona”, dell'imprimatur, che racchiude in sé il paradigma della funzionalità, ovvero del servire allo scopo, dove lo scopo è dato dalla rappresentazione dell'idea, del movente, in sostituzione della categoria estetica del bello, ovvero dell'esibirsi entro i limiti di un gusto universalmente accettato come bello.
Asimmetrie, distorsioni, composizioni anatomiche inverosimili di figure con teste d'uccello: tutto concorre a distogliere l'osservatore dall'accettare il soggetto raffigurato come simile a sé e ai propri simili, orientandolo in tal modo a cogliere il concetto rispetto alla cosa concepita, l'orma rispetto al modello della scarpa, la forma sferica rispetto al riccio raggomitolato.

Alessio Tosoni